Tra ricorsi e scadenze impossibili, sulle infrastrutture il Recovery Fund rischia di essere un flop
Il rischio che il Recovery Fund sulle infrastrutture si riveli un flop è altissimo. Non solo per Roma, ma per tutta l’Italia e l’Europa.
Con il Regolamento 2021/241, l’Unione Europea ha infatti finalmente istituito il “dispositivo per la ripresa e la resilienza”, comunemente noto come “Recovery Fund”. Purtroppo però, il regolamento approvato dal Parlamento e dal Consiglio Europeo è stato una doccia gelata per chi, come noi, sperava in un rilancio del settore infrastrutturale per tramite di questo fondo.
Infatti, il primo progetto di risoluzione proposto dal Parlamento è venuto meno. Questo progetto prevedeva, tra molte altre modifiche, di estendere, fino ad un massimo di 7 anni dall’approvazione del singolo piano nazionale, il tempo utile per realizzare le opere.
Il Parlamento ha invece scelto di ratificare integralmente, solo a febbraio del 2021, la proposta della Commissione Europea, risalente a sua volta a maggio del 2020, che indicava il limite massimo per la realizzazione degli investimenti nella scadenza di agosto del 2026.
Non bisogna essere uno statista per comprendere, arrivati a marzo 2021, che realizzare interventi “pesanti”, davvero strutturalmente benefici e davvero tesi a costruire un sistema paese “resiliente”, è impossibile per qualsiasi paese entro una scadenza così vicina.
Una scadenza che, peraltro, non tiene conto dei 9 mesi trascorsi tra la presentazione della proposta al Parlamento e la relativa approvazione, ma neanche dei lunghi tempi di ratifica del Regolamento da parte dei 27 paesi dell’Unione, una cosa tutt’altro che scontata, come dimostra il recente stop imposto dalla Corte Costituzionale tedesca.
Di questo passo, il Regolamento non sarà esecutivo prima della fine dell’estate, il che significherebbe dover realizzare gli investimenti per la “resilienza”, dalla progettazione sino ai lavori, in cinque anni esatti.
Un’impresa non solo impossibile, ma neanche auspicabile, in quanto significherebbe comprimere al massimo non tanto i lavori, che in ogni caso hanno tempi relativamente fissi, ma le fondamentali fasi preliminari di progettazione e approvazione, che costituiscono la base di un’opera ben fatta e dai tempi di realizzazione certi.
Ma nella stragrande maggioranza dei casi, neanche la compressione delle fasi propedeutiche ai lavori sarebbe sufficiente per realizzare interventi davvero degni di un piano per la ripresa e la resilienza.
Ad esempio, se oggi avessimo in mano i progetti definitivi di qualsiasi metropolitana a Roma, tutti avrebbero comunque un cronoprogramma incompatibile con la scadenza di agosto 2026. Solamente due opere fondamentali, oggi, sarebbero eleggibili nel Recovery Fund, ovvero la trasformazione della Roma Lido e della Roma Nord nelle linee E ed F della metropolitana.
Peraltro, va comunque ricordato che l’orientamento consolidato della Corte dei Conti e della disciplina contabile ha di fatto bandito da tempo la possibilità, per gli enti locali, di costituire un “parco progetti”, ovvero un insieme di progetti definitivi da finanziare all’occorrenza. I finanziamenti pertanto vanno sempre richiesti su un progetto di fattibilità tecnico economica e solo successivamente possono essere portate avanti le successive fasi progettuali. Questo vuol dire che fatta salva qualche rara eccezione, come la tratta Venezia-Clodio della Linea C di Roma, che fa parte di un contratto che antecede le discipline contabili introdotte dal Governo Monti, i progetti definitivi pronti per opere di trasporto rapido di massa italiane non esistono.
La risposta del Governo Italiano è quindi stata, purtroppo, la più banale e facilmente approntabile: sono state inserite nel PNRR le opere più rilevanti già precedentemente finanziate con strumenti ordinari, come il Fondo unico per il rilancio degli investimenti delle Amministrazioni Centrali dello Stato, il cui cronoprogramma risulti già coerente con la scadenza dell’agosto 2026.
Ritroviamo quindi nelle bozze di Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) opere già note alle cronache, come la Funivia Battistini-Casalotti e la tranvia Togliatti. Opere che quando utili sono al massimo determinanti per il loro quadrante, ma certo non determinanti per il futuro di Roma e, figuriamoci, dell’Italia o dell’Europa. Viceversa, una ventata di novità arriverà probabilmente dall’ultimo avviso per l’accesso ai fondi del trasporto rapido di massa, da cui verranno estratte diverse opere per il PNRR, ma sarà comunque un contributo limitato, in quanto le opere più importanti, come la stazione Venezia della Linea C o la tranvia Termini-Vaticano-Aurelio, presentano un cronoprogramma che supera la scadenza di agosto 2026.
A questo punto però, i binari sono due: o in prima ipotesi si avvia una ridiscussione a livello europeo, per arrivare davvero a dei piani di ripresa e resilienza decenti e non viziati da un termine di ultimazione assurdo, incoerente con tutto quanto è accaduto dalla sua proposizione, cosa però assai improbabile, o in seconda ipotesi si accettano le scadenze imposte, ma si selezionano alcune specifiche opere davvero cruciali, senza arrangiarsi esclusivamente con il poco già pronto e avviato, ma sfruttando con forza contesti di riuso, sviluppo e potenziamento dell’esistente, che permettano la realizzazione di grandi opere, ma entro il 2026.
Questa è la nuova politica: “https://www.romatoday.it/politica/paolo-ferrara-fenomenologia.html”. Non chiedo restaurazioni della vecchia, ma dico che siamo ben oltre la frutta. Le abbiamo provate tutte, destra, sinistra, marziani… ma niente! Siamo punto e accapo. Purtroppo questo immobilismo è figlio di un impoverimento culturale e sociale prima di tutto. Proposte? Come fa una squadra di calcio arrivata alla fine di un ciclo… rifonda la squadra puntando sul vivaio. Coltiviamoli bene questi giovani, sono il futuro, magari più roseo di questo presente assurdo.
Coltiviamoli? Come, chiudendo le scuole per un anno e mezzo e lasciandoli bivaccare per i parchi a farsi le canne e a pestarsi? S’è visto quanta considerazione ha questo Paese dei giovani e del futuro. Si è dibattuto di tutto in quest’anno e più di pandemia, su cosa tenere aperto, dalle discoteche alle piste di sci, dai parrucchieri ai cinema, ma ogniqualvolta è stata decisa una stretta, le scuole sono state sempre le prime a chiudere e le ultime a riaprire, e tutti zitti. Che dire… l’Italia è un Paese fallito. Finito. Senza alcuna speranza
Domanda: ma se ai nostri politicanti interessa solo catturare voti, di cui sono golosi, tramite mance elettorali (redditi di cittadinanza, quota 100, 80 euro, redditi di inclusione, finanziamento alla fiera delle vongole, ……), come si può pensare che gli stessi destinino fondi alle infrastrutture? E’ chiaro che così il paese va in declino e si indebita, ma a dei falliti senza ne arte ne parte cosa può importare? La colpa è nostra che siamo sudditi, il nostro motto dovrebbe essere: “non investimenti no voti”. Ricordate che cosa è successo all’Isola di Pasqua.
Questo è un Paese delle chiacchiere, non ci sono neanche i distintivi.
Da sempe si parla di Trasporti rapidi di massa, di dissesto idrogeologico, di rischio sismico.
Al di là di futuristiche realizzazioni, preparare progetti di massima e quindi trasformarli in progetti esecutivi è così difficile e costoso?
Questo tipo di progetti non ha scadenza, come le mozzarelle.
Al massimo ove necessario andrebbero rivisti i valori di costo.
Ma averli significa, come in oggetto, di poter partire subito una volta reperiti i fondi.
Tutto tristemente vero. L’Italia, chi la amministra, è inetta è colpevole su questo, incapace e senza nessuna volontà di avviare questa rivoluzione dei trasporti che ovunque in Europa è normalità.
Chi governa, ieri come oggi, non ha semplicemente voluto il Trm nel Piano, la nostra amministrazione è troppo condizionata da interessi diversi, dal sistema automobilistico a quello ferroviario dell’alta velocità che si contende i fondi con il Tpl, in un Paese che non vuole investire in queste tecnologie.
Purtroppo la realtà nazionale Italiana sia a livello progettuale che realizzativo risulta lontana dagli standard previsti dalla Commissione Europea per poter godere dei finanziamenti di cui al “Recovery Fund”:
non rimane che capire se siamo noi, al solito, inadeguati e fuori tempo oppure le norme che vengono proposte e, soprattutto, come gli altri Stati vicini rispondono e si confrontano con le medesime norme.
Tutto vero, qua è l’Italia che non ha progetti pronti ed è un anno che non ha mosso nulla di significativo per definire il Piano e le relative azioni coerentemente con le regole Ue, i cui indirizzi sono noti da quasi un anno.